L'idea l'avevamo in tasca da anni: mettere in rilievo la specificità di una professione tanto qualificata quanto sottovalutata nel tempo, soprattutto nei primi decenni di avventurosa attività del nostro cinema che, ormai in procinto di misurarsi con l'avvento del sonoro, doveva contemporaneamente fare i conti non solo con l'imperante autarchia fascista, ma anche e soprattutto con l'altissima percentuale di analfabetismo che ancora segnava larghi strati della popolazione del nostro paese.
Rendere omaggio alla grande tradizione del doppiaggio italiano, qualche anno fa sarebbe stato considerato null'altro che un mero esercizio di cinefilia. Oggi, in una prospettiva storica che tenga conto di quanto poco sopra affermato, riteniamo possa assumere peso e ruolo assai diversi.
A partire dagli anni trenta e poi dal 1946, con la nascita della CDC: Cooperativa Doppiatori Cinematografici, si registra infatti l'affermazione di un'insostituibile scuola che, in poco più di ottant'anni, ha reso possibile la versione italiana di più di trentamila film.
Che i volti dei grandi divi del passato e del presente abbiano avuto e abbiano, nel nostro paese, voci inconfondibili e bellissime – riusciremmo a immaginare il don Camillo di Fernandel senza la simpatica e irruente cadenza vocale di Carlo Romano? - appare un dato quasi scontato.
Eppure i maggiori protagonisti storici della vicenda che intendiamo ripercorrere – ben consapevoli di quanto possa risultare inadeguata allo scopo una rassegna cinematografica di soli sedici titoli –, personaggi tutti dalla voce straordinaria, sono rimasti per lo più nell’ombra. Nomi e volti risultano ancor'oggi quasi del tutto sconosciuti al grande pubblico.
Forse è arrivato il momento di dare volti alle voci e di riconsiderare quale peso specifico abbia esercitato il doppiaggio all'interno del nostro rapporto col linguaggio cinematografico, quante delle nostre emozioni siano state filtrate o abbiano avuto il supporto delle voci provenienti, come per naturale magia, dal grande schermo.
Gli anni quaranta e cinquanta inaugurano l'epoca d'oro del doppiaggio italiano: La fiamma del peccato (1944) di Billy Wilder, vede all'opera, sui volti di Fred MacMurray e Barbara Stanwyck due più grandi professionisti italiani del momento: Giulio Panicali (voce anche di Tyrone Power e Robert Taylor, ma qualcuno si ricorderà anche della sua ammirevole prestazione in La parola ai giurati di Sidney Lumet, dove presta il suo “parlato” a Henry Fonda) e Lydia Simoneschi (la voce impertinente e orgogliosa di Rossella O'Hara/Vivien Leigh in Via col vento, tanto per citare una delle infinite dive dello schermo dietro cui ha saputo mirabilmente nascondersi).
Giuseppe Rinaldi (che riascolteremo anche in Missing (1982) di Costa-Gavras) e Carlo Romano, voci che appartengono ormai alla memoria di tutti, danno appassionata e sensibile sfumatura sonora alle interpretazioni di Paul Newman e Jackie Gleason ne Lo spaccone (1961) di Robert Rossen (senza dimenticare la presenza di Nando Gazzolo che veste di timbro metallico il cinismo senza scrupoli di George C. Scott).
E ancora: Maria Pia Di Meo (da sempre voce di Meryl Streep) che in Silkwood (1983) di Mike Nichols rende omaggio alla performance della grande attrice americana con toccante verismo: cifra costante di una carriera che ormai ha varcato i settant'anni di attività!.
A seguire, oltre al già citato Missing, un quintetto di film che fornisce un ulteriore paradigma delle straordinarie capacità di adesione da parte dei doppiatori italiani – in qualche caso anche grandi attori di teatro come Enrico Maria Salerno, Oreste Lionello e Riccardo Cucciolla – ad alcune fra le più celebri realizzazioni cinematografiche del secolo appena trascorso: Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini, dove la voce di Salerno sembra davvero sostenere da sola l'intero film; Sacco e Vanzetti (1971), tributo a Riccardo Cucciolla, premiato per questo film come migliore attore al Festival di Cannes di quell'anno; Il grande dittatore (1940) di Charlie Chaplin, in cui Oreste Lionello celebra il talento del più grande uomo di spettacolo di tutti i tempi attraverso quella che, forse, può essere considerata, una delle maggiori prove di doppiaggio che il cinema ricordi; Gli Intoccabili (1987) e Un dollaro d'onore (1959), che vedono radunata larga parte del gotha dei doppiatori italiani: Pino Locchi e Emilio Cigoli (le voci storiche di Sean Connery e John Wayne), Gualtiero De Angelis (qui nascosto dal volto di Dean Martin, ma anche voce di James Stewart e Cary Grant), Massimo Turci, Lauro Gazzolo (il “vecchietto” per antonomasia del grande cinema western).
Un capitolo a parte è invece costituito da I soliti ignoti (1958), capolavoro di Mario Monicelli, in cui il regista disegna letteralmente i caratteri dei singoli personaggi attraverso il sapiente utilizzo di voci ben caratterizzate da inconfondibili inflessioni dialettali: basti pensare a Carlo Pisacane/Capannelle, attore di strada di origine napoletana, che però Monicelli, con geniale trovata, volle invece fosse doppiato da Nico Pepe in uno spassosissimo bolognese, decretandone così l'immediato successo.
Da The Heat-La sfida (1995) di Michael Mann a Midnight in Paris (2011) di Woody Allen: a segnare un ideale passaggio generazionale all'interno della scuola di doppiaggio italiana; con Ferruccio Amendola che, nel primo, dona ancora una volta l'inquieta profondità della sua voce ad uno degli ultimi personaggi davvero carismatici interpretati da Robert De Niro (cui s'aggiunge l'Al Pacino di Giancarlo Giannini), mentre sua nipote Alessia, già da tempo professionista sul campo, modella, nel secondo, le tonalità del personaggio di Zelda Fitzgerald interpretato da Alison Pill. Nel piccolo gioiello di Allen troviamo inoltre all'opera un altro talento della nuova generazione di doppiatori: Chiara Colizzi, figlia di Pino, intenso attore di cinema teatro e televisione (sua la voce del Gesù di Franco Zeffirelli del 1977).
Al lavoro di Chiara il nostro ciclo rende ulteriore omaggio con The village (2004) di M. Night Shyamalan. L'attrice presta qui la sua duttilità vocale a Bryce Dallas Howard che dà vita all'affascinate personaggio della ragazza cieca attorno alla quale ruota gran parte della vicenda.
E se, infine, si torna a rendere omaggio a due grandi star del doppiaggio italiano come Marzia Ubaldi (umbratile voce di Judi Dench in Philomena (2013) di Stephen Frears) e Sandro Acerbo, il Brad Pitt di Fury diretto nel 2014 da David Ayer, non era comunque possibile concludere la nostra rassegna senza rivedere e riascoltare una delle testimonianze più alte che l'arte cinematografica ci abbia offerto del connubio immagine/suono. 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick vive di un dialogo essenziale, di voci remote rapite dal flusso di immagini immerse in un'atmosfera ancora capace, dopo mezzo secolo, d'additare e restituire un futuro lontanissimo. Suoni insondabili e musiche bellissime di Richard Strauss (fulminante l’inizio di Così parlò Zaratustra) e Johann Strauss figlio (dove le astronavi sembrano danzare sulle note de Il bel Danubio blu) sembrano esser scaturite da un'unica radice. E su tutto una delle sonorità più affascinanti e misteriose che abbiano attraversato il silenzio del cinema: quella che plasma le parole del computer Hal 9000 impresse per sempre nella nostra memoria grazie all'asettica purezza della voce di Gianfranco Bellini (cui lo stesso Kubrick tributò al tempo un sentito ringraziamento).
Andrea Baldinotti e Daniele Morandi