“Credo nel mistero delle parole,
e che le parole possano diventare vita, destino;
così come diventano bellezza”
Leonardo Sciascia

Le storie sono fatte di parole. Se le parole non esistessero, le storie non riuscirebbero ad attraversare il tempo, né tantomeno a darcene il senso. Un’immagine può rivelare il mondo in un attimo, ma sono le parole che ne calano il significato nel flusso degli avvenimenti quotidiani; fissando un ‘prima’ e un ‘dopo’, altrimenti inavvertiti e inavvertibili.
Abbiamo scelto per questa ottava rassegna cinematografica ospitata in Sala Blu, di riflettere su come il cinema sia sceso, nel corso della sua più che secolare vicenda, nel cuore delle parole, utilizzandole non solo come ovvio strumento narrativo, ma anche quale chiave di volta per connotare o codificare simbolicamente le vicende portate alla ribalta.
L’età dell’innocenza di Martin Scorsese, tratto dal romanzo di Edith Wharton, è forse il più affascinante monumento all’ipocrisia che il cinema ha saputo offrirci negli ultimi decenni. Monumento eretto prendendo a modello il chiuso universo dell’aristocrazia americana della seconda metà dell’Ottocento, dove nessuno poteva permettersi di anteporre le ragioni del cuore a quelle della soffocante etichetta che ne scandiva implacabilmente riti e abitudini.
Un silenzioso gioco al massacro che trova il suo rovescio della medaglia nella pellicola di James Foley, Americani, dove invece tutto si fa esplicito, duro; dove le parole mettono a nudo, senza pietà, l’insensato ingranaggio del sogno americano: un mostro capace di sopravvivere soltanto divorando i propri figli.
E’ in fondo il tema che tiene uniti, seppur mostrandoceli da angolazioni opposte, i destini dei protagonisti di Sentieri selvaggi, indiscusso capolavoro di John Ford, e di Glory, diretto da Edward Zwick, storia del primo reggimento composto da soldati di colore al tempo della Guerra civile americana. Del più fervente patriottismo, quasi sempre non rimangono che solitudine e morte.
E se un velo di dolorosa speranza, si affaccia nelle parole che abitano la notte dei soldati di Torneranno i prati, splendido apologo di Ermanno Olmi sulla follia della primo conflitto mondiale; sarà al contrario la speranza di lenire un indominabile dolore, a guidare, sul finire degli anni cinquanta, nel Labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli, un giovane avvocato tedesco alla ricerca della verità che si cela dietro i crimini dell’ideologia nazista.
Ma le parole sono anche memoria, futuro da tramandare: questo ci ricordano gli uomini libro di Ray Bradbury, autore del romanzo dal quale François Truffaut trae il suo inquietante Farenheit 451. Nel segreto delle parole si nasconde il nostro destino, che talvolta come in Io confesso – uno dei film di Hitchcock cui dovrebbe esser tributata un’attenzione decisamente maggiore – si trasforma in un lacerante strumento d’indagine psicologica capace di illuminare, come mai prima, il sottile confine che separa fra colpevolezza e innocenza.
Lo stesso confine che separa anche le piccole e grandi certezze dell’esistenza da ciò che ci attende dopo il nostro addio al mondo. E lì, in una sorta di limbo trasparente posto al limitare della morte, che vive e lavora tranquillo il piccolo (di statura, ma non di cuore) John May di Still life, diretto da Uberto Pasolini. Chiamato a regalare un ultimo addio a chi, spesso, non può riceverlo, il personaggio interpretato da Eddie Marsan è forse il miglior testimone delle parole di Sciascia poste a epigrafe di questo nostro ciclo.
E, ancora, le parole come scudo civile, custodi di diritti – giustizia, onestà, uguaglianza –costantemente negati. Ironiche e brillanti quelle di Billy Wilder nel mettere alla berlina, in Prima pagina, il proverbiale giustizialismo americano; taglienti e coraggiose quelle di Alan J. Pakula nel riconsegnare alla memoria comune, in Tutti gli uomini del presidente, l’inchiesta che partendo dallo scandalo politico legato ai fatti del Watergate costrinse alle dimissioni il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon; ruvide e appassionate quelle di Ava DuVernay nel rievocare, in Selma: la strada per la libertà, l’inizio della rivolta per l’affermazione dei diritti civili nell’America della metà degli anni sessanta.
Ci sono però altre parole che forse sono ancora più ardue da affrontare e sostenere: quelle che celano dietro la loro leggerezza il senso e l’attesa della fine; che si fanno, come negli scritti di Virginia Woolf, testimoni di un’incomunicabilità esistenziale capace di attraversare segretamente tempo e spazio; lasciando, nel cuore dei protagonisti di The Hours di Stephen Daldry, accomunati tutti dalla lettura di Mrs Dalloway, il romanzo che la grande scrittrice inglese dette alle stampe nel 1925, un’insanabile cicatrice.
Parole non dette: a sigillare il vuoto dell’anima e la vanità di sentimenti che appartengono all’introverso Stephane di Un cuore in inverno, sommessa parabola di solitudine magnificamente diretta da Claude Sautet. Parole non scritte: destinate ad innescare la vicenda dell’ultimo romanzo di Leonardo Sciascia portato sullo schermo da Emidio Greco: Una storia semplice, che semplice, tuttavia, non lo è per niente, snodandosi la trama attorno ad un duplice quanto oscuro fatto di sangue.
Infine, parole che devono essere accettate, per essere comprese: misteriose e sospese come quelle che aleggiano nelle stanze dell’albergo chiamato ad ospitare, ne Le Confessioni di Roberto Andò, i più influenti ministri dell’economia mondiale. Ma anche un frate, interpretato da Toni Servillo, dai modi indecifrabili e spiazzanti che nel suo silenzio nasconde invece ciò forse nessuno avrebbe davvero il coraggio di udire.

“Parole, parole, parole…”
William Shakespeare