Billy Wilder amava scrivere storie. Quello era Il suo vero lavoro. Dirigere gli attori, dar sostanza d’immagine agli avvenimenti fissati in sceneggiatura erano corollari necessari al raggiungimento del risultato finale. Ma era sulla pagina bianca che si giocava la vera partita, tutto il resto sarebbe dipeso soltanto dal reticolo calibrato delle parole destinate a riempirla. Scrivere era la sua religione, una religione che lo obbligava ogni volta ad inseguire il copione perfetto. E Wilder ce ne ha lasciati molti: capolavori assoluti senza averne l’apparenza. Film di grandi inizi e di ancor più grandi finali. Punti estremi e solo apparentemente lontani, che in realtà si specchiano e si nascondono gli uni negli altri senza che lo spettatore sia portato a sospettarlo.
Ed è nel segno di Wilder, il regista che abbiamo maggiormente saccheggiato nelle nostre rassegne, che s’è andato delineando il ciclo cinematografico di quest’anno: omaggio a chi al cinema ha regalato il talento delle proprie capacità letterarie, trasformando le parole in suoni capaci di raccontare storie destinate a rimanere per sempre nel nostro immaginario. Accanto al Wilder di Non per soldi, ma per denaro (1966) – graffiante affresco di un rocambolesco tentativo di truffa ai danni d’una ricca compagnia assicurativa, magnificamente interpretato da Jack Lemmon e Walter Matthau – ecco allora il Woody Allen di Hannah e le sue sorelle (1986, premio Oscar per la migliore sceneggiatura originale): perfetto diagramma del complesso universo sentimentale che si muove attorno e dentro la vita di tre donne newyorkesi, dove passioni, piccole e grandi invidie, gioie fragili e dolorose frustrazioni s’intrecciano e si sciolgono lungo lo scorrere quotidiano di un tempo in cui tutto, alla fine, sembra trovare una sua quieta e consapevole giustificazione.
E’ una delle molte facce attraverso cui il cinema, soprattutto il cinema americano, ha raccontato la deriva dell’illusione e del sogno, stravolgendo con cinica rassegnazione il mito libertario di una nazione cresciuta, solo in apparenza, nel segno di un sano e civile progresso.
Fra la fine degli anni Sessanta e la prima metà del decennio successivo, nel solco delle rivendicazioni del mondo giovanile destinate a deflagrare oltre i confini dei campus universitari, si consumano infatti sul grande schermo parabole e destini di personaggi dall’incerto futuro, protagonisti di epopee che trovano il proprio riscatto morale nel coraggio di scegliere l’utopia come estrema tappa del viaggio alla scoperta di sé (Il laureato, 1968) o che da quella stessa utopia saranno divorati (Un uomo da marciapiede e Easy Rider, entrambi del 1969).
Lunghe odissee fisiche ed interiori che non conducono in nessun luogo, che smarriscono presto il loro recondito scopo di rinascita. Taxi Driver, scritto da Paul Schrader nel 1976, ne segna gli esiti estremi trasformando la geografia stradale di una New York notturna e delirante in un labirinto della mente da cui non si può uscire se non pagando umanamente un prezzo altissimo.
E’ per questo che, a far eco al capolavoro di Martin Scorsese, Chinatown di Roman Polanski (1974) s’è imposto alla stregua d’una scelta a dir poco obbligata. Magistralmente sceneggiato da Robert Towne, una delle firme non accreditate dello script del Padrino, il noir che vede al centro della torpida ed oscura vicenda narrata il detective Jack Gittes, si consuma lentamente in uno spietato specchio d’ambiguità e di violenza dove nessuno dei personaggi della storia porta su di sé le stimmate di una possibile redenzione.
Al tema dell’ambiguità inteso come specchio di un insopprimibile desiderio di libertà svincolata da qualsivoglia censura morale, il cinema ha guardato spesso, senza mai raggiungere però l’apice seduttivo di Bella di giorno (1967) di Luis Bunuel, dove il corpo e la mente della protagonista – un’indimenticabile Catherine Deneuve - divengono pretesto e strumento di cruda denuncia sociale nei confronti del bigottismo imperante dell’epoca presessantottina.
Una satira feroce che al tempo spiazzò e irritò i benpensanti, proprio come aveva fatto qualche anno prima 8 e mezzo (1963) di Federico Fellini che qui s’è inteso riproporre per omaggiare il talento di uno dei più singolari intellettuali italiani del dopoguerra, Ennio Flaiano. Scrittore, critico letterario, drammaturgo, ironico e feroce polemista, Flaiano resta uno degli sceneggiatori di punta del nostro cinema. Ma soprattutto, insieme a Tonino Guerra, è colui che ha contribuito maggiormente alla creazione e alla mitizzazione del grande cantastorie riminese.
Storie sognate e desiderate, e infine storie che guardano alla Storia: quella del cinema in primis, qui raccontata attraverso il resoconto, dovuto alla firma di Ugo Pirro, della genesi e della lavorazione di Roma città aperta di Roberto Rossellini. Celluloide (1996) di Carlo Lizzani, cui abbiamo affidato il compito di aprire la rassegna, indugia a lungo, sotto quest’aspetto, sul lavoro di sceneggiatura di Sergio Amidei e dello stesso Rossellini, mettendone in luce le scelte talvolta reciprocamente contraddittorie e il continuo gioco di compromessi che ne avrebbe caratterizzato la collaborazione.
Film cardine del neorealismo italiano, commosso paradigma d’impegno etico e morale, Roma città aperta ha sancito il destino di molti fra i più importanti registi del nostro cinema. Fra questi, Francesco Rosi è forse la personalità che ne ha maggiormente distillato, all’interno del proprio lavoro, il valore di alta testimonianza civile. Tre fratelli (1981) non è uno dei film più acclamati del cineasta partenopeo, ma resta comunque, seppur visto da un’angolazione del tutto appartata, uno dei più intensi ritratti del nostro paese, allora segnato dal terrorismo e da laceranti rivendicazioni sociali.
Storie personali, d’intimità dolorosa e di dolorosa reminiscenza, come quelle attraverso le quali s’è inteso rendere un duplice omaggio al giorno della memoria. Duplice perché mai come oggi quella memoria sembra vicina, e mai come oggi l’orrore pare in procinto di sovvertire il mondo. La scelta di Sophie (1982) di Alan J. Pakula (estensore anche della sceneggiatura tratta dal romanzo di William Styron) è la lunga confessione d’un cuore perduto che ha attraversato la tenebra dell’olocausto e della ferita immedicabile che ne spegne il battito.. Segnavia di conflitti irrisolvibili destinati a gettare la loro ombra e a perpetuarsi nel nostro e nel tempo futuro, come quello offertoci da Eran Riklis ne Il giardino di limoni (2008); vicenda ispirata a fatti realmente accaduti che videro una donna palestinese difendere il proprio piccolo e rigoglioso appezzamento di terreno dalle arroganti ingiunzioni di un potente uomo politico israeliano.
Come la protagonista del film, ci volgiamo indietro solo per accorgerci che la memoria non appartiene al passato, ma ancora e soltanto al nostro presente.
Andrea Baldinotti e Daniele Morandi