Cinema e sport
Il Comune di Signa e il Gruppo Trekking Signa organizzano la rassegna cinematografica dal titolo "Cinema e sport", a cura di Andrea Baldinotti e Daniele Morandi. Le proiezioni si effettuano ogni mercoledì alle ore 21:15 ad ingresso libero e gratuito presso la Sala Blu del centro culturale "Boncompagno da Signa", in Via degli Alberti 11 a Signa.
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Mer 15/01/2025
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Mer 22/01/2025
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Mer 29/01/2025
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Mer 05/02/2025
Ma davvero l'importante è partecipare, così come sosteneva il barone De Coubertin nel sottolineare lo spirito che doveva animare i giochi Olimpici? Diciamocelo: dei partecipanti nessuno si ricorda, sono nomi che, al più, rientrano nelle statistiche degli addetti ai lavori. Ci si rammenta solo dei vincitori o degli sconfitti, almeno quando la sconfitta ha il sapore d'una impresa. Il caso di Dorando Pietri, col drammatico epilogo della maratona che lo vide protagonista alle Olimpiadi di Londra del 1908, insegna.
Il cinema, specchio e memoria fedele d'un immaginario collettivo che ama il più delle volte adagiarsi su consolidate certezze, non fa eccezione. Sono i vincitori e i vinti (niente a che vedere con la pellicola di Stanley Kramer incentrata sul processo di Norimberga, sia chiaro) i soggetti prediletti delle storie che la settima arte ha incentrato, nel corso della sua lunga storia, sul mondo dello sport.
Un mondo dove, cinematograficamente parlando, vincitori e vinti hanno tuttavia almeno una cosa in comune: il desiderio d'un riscatto personale in grado di dare un nuovo senso alle loro vite,
Momenti di gloria di Hugh Hudson (Gb, 1981), film che, quasi obbligatoriamente, apre il ciclo di quest'anno, riassume in maniera emblematica il nostro assunto.
Sullo sfondo delle Olimpiadi di Parigi del 1924, attraverso un lungo nostalgico flashback, si racconta un'esemplare storia di fede in se stessi e insieme di rivalsa. Vincitore di 4 premi Oscar, il film si fa ricordare soprattutto per splendida colonna sonora di Vangelis, anch'essa premiata dall'Academy, che col suo andamento armonioso e solenne è finita col diventare oggi il brano più utilizzato al mondo per evocare la magia delle grandi imprese sportive.
Alla stregua di quella che vide l'affermazione, nei giochi di Berlino del 1936, dell'atleta di colore Jesse Owens. Owens inflisse una dura lezione all'orgoglio della Germania hitleriana, ma non riuscì a sconfiggere in patria l'intolleranza e il latente razzismo della società america. Solo Lutz Long, l'atleta tedesco che gli aveva conteso la vittoria sulla pedana di salto in lungo, gli rimase amico per tutta la sua breve vita (morì a trent'anni, in guerra, nel 1943, indossando la divisa del suo paese). Race - il colore della vittoria di Stephen Hopkins è il film scelto per celebrare la giornata della memoria.
Tra gli sport che il grande schermo ha saputo immortalare in termini sublimi, il posto d'onore è senz'altro occupato dalla boxe. Il ring come teatro della vita e specchio del destino dove resurrezione e caduta si alternano senza soluzione di continuità, è uno dei grandi leitmotiv del cinema d'ogni stagione
Senza scomodare la saga di Rocky Balboa, basterebbero titoli come Lassù qualcuno mi ama di Robert Wise del 1956 o Toro Scatenato di Martin Scorsese del 1980 per codificare la fortuna del genere.
S'è scelto qui di presentare, sul tema, due film meno noti ma di solido impianto spettacolare: L'eroe della strada di Walter Hill (USA,1975) e Cinderella Man di Ron Howard (USA, 2005). Protagonisti, secondo la miglior tradizione del cinema d'oltreoceano, “moderni” cavalieri solitari sullo sfondo dell'America della Grande depressione.
Grandezza e solitudine vanno spesso di pari passo nelle nostre storie. Sono queste a permeare il dittico alpinistico che vede affiancati Grido di pietra di Werner Herzog (1991) e La morte sospesa di Kevin Macdonald del 2003. Nel gioco atroce della vita e della morte, in cui s'intrecciano ambizioni generose e decisioni estreme, il ring dell'esistenza assume qui l'aspetto di cime spettrali e apparentemente inespugnabili, come quelle del Cerro Torre o del Siula Grande.
D'altra parte il tema della conquista sofferta di un universo che per i più sembra irraggiungibile ha percorso da sempre, come un fiume carsico, la storia della settima arte. E' il coraggio di inseguire un sogno che sembra destinato a non realizzarsi mai, che sembra schiacciare quanti coltivano l'utopia di un'affermazione personale agli occhi del mondo capace di trasformarsi, in questo caso attraverso il gesto sportivo, in esempio morale e, insieme, motivo d'orgoglio collettivo, a segnare, le vicende de Il Migliore di Barry Levinson (USA, 1984) e di Invictus, diretto da Clint Eastwood nel 2009.
Lo sport contiene in sé, per molti, un invisibile diritto alla speranza. Lo sa bene il romantico eroe del romanzo di Bernard Malamud interpretato da Robert Redford, ne è convinto il Nelson Mandela di Morgan Freeman che vuole veder vincere sul rettangolo verde del campo di rugby la compagine del sudafrica contro i temutissimi atleti della Nuova Zelanda, nella finale del campionato del mondo del 1995.
Vincere, comunque vincere. A dispetto di tutto e di tutti. A dispetto del destino e del prezzo da pagare che esso ci impone. Rush di Ron Howard (USA, 2013) ripropone attraverso un sapiente tessuto d'immagini adrenaliniche, le tappe umane e sportive che hanno contrassegnato, negli anni settanta del secolo appena trascorso, il lungo duello consumatosi sull'asfalto degli autodromi di tutto il mondo fra James Hunt e Niki Lauda. Istinto contro razionalità, incontrollabile vitalità contro sorvegliato rancore, nessuna esclusione di colpi. Perchè alla fine (ci scusiamo per la metafora automobilistica), si torna comunque al punto di partenza: vincere, sempre e soltanto vincere.
Diversamente dal mondo dei motori, a più riprese consacrato dai grandi divi dello schermo, l'ambiente del calcio sembra non aver goduto d'altrettanta fortuna. Il cinema in genere l'ha sfruttato in chiave di commedia comico-satirica con risultati non sempre soddisfacenti (si vedano le gesta del presidente del Borgorosso Alberto Sordi, così come le alchimie sconsiderate dell'Oronzo Canà di Lino Banfi) oppure superficialmente mitizzanti (Fuga per la vittoria di John Huston).
In questo risicato panorama fa eccezione uno dei film meno conosciuti di Pupi Avati, Ultimo minuto (Ita, 1987) che dell'universo calcistico ci mostra il volto più amaro e corrotto, nel seguire le vicende del personaggio interpretato da Ugo Tognazzi alla guida d'una società sportiva perennemente sull'orlo del fallimento.
Ma è Woody Allen con Match Point (USA, 2005), unanimamente considerato fra i migliori film del cineasta americano, ad offrirci uno degli intrecci più ambigui e affascinanti fra “presenza” sportiva (il tennis è lo sfondo glamour della vicenda) e dramma umano; dramma in questo caso destinato a sfociare addirittura in un crudele assassinio.
Servito da una sceneggiatura esemplare, Match Point esplora con lucido disincantato cinismo – il finale ha l'impatto sconcertante d'una sequenza degna di Bergman – la parabola d'un' impietosa deriva morale. Parabola alla quale fa eco, seppur su un piano meno cerebrale, la biografia di Tonya Harding (USA, 2017) di Craig Gillespie, celebre campionessa di pattinaggio soggiogata dai demoni dell'invidia e dell'ambizione, alle quali sacrificherà di fatto la propria carriera d'atleta.
Infine Un mercoledì da leoni di John Milius (USA, 1979): storia d'amicizia e di nostalgia che trionfano sul passare degli anni e sui miti dell'innocenza perduta dell'America, vista attraverso lo scivolare delle tavole da surf sulla superficie di un oceano grande come la memoria di un paese che. per riconoscere se stesso, non può che affidarsi alla materia di cui son fatti i sogni.
Andrea Baldinotti e Daniele Morandi