Non c’è viaggio senza che si attraversino frontiere – politiche, linguistiche, sociali, culturali, psicologiche, anche quelle invisibili che separano un quartiere dall’altro nella stessa città, quelle tra le persone, quelle tortuose che nei nostri inferi sbarrano la strada a noi stessi. Non c’è viaggio che non nasconda in sé il senso dell’esistere, non c’è un viaggio che forse non sia la vita.
Chi ha inteso farne memoria collettiva attraverso la poesia, il romanzo, il cinema non è mai riuscito a scindere, né sarebbe stato capace di farlo, il loro duplice necessario fluire.
E neppure noi ci metteremo, in tal senso, alla prova. Anzi ce ne lasceremo trasportare, assecondando la corrente del fiume sulla quale idealmente navigheranno le nostre storie.
Il viaggio è memoria, timore e vertigine dell’altrove, sogno e illusione, desiderio d’annullamento e, insieme, d’eterno ritorno. Questo ci insegna il mito. Così come la più antica di tutte le storie, il nòstos, il ritorno per eccellenza: l’Odissea. Poema che, nel corso dei secoli, ha alimentato, senza soluzione di continuità, gran parte della letteratura occidentale e che, da essa è stato rivisitato sul piano della metafora e del simbolo in infinite occasioni.
Lo spunto di partenza era dunque quasi obbligatorio, oltre che irresistibile (e proprio alla figura di Ulisse sarà dedicata una serata speciale sabato 29 novembre).
Fra quelle moderne, la rilettura cinematografica offertane dai fratelli Coen (Fratello dove sei ?) risulta forse la più sagace e corrosiva, ambientata com’è nell’America della grande depressione, con Ulisse e compagni trasformati in forzati evasi impegnati a ritrovar la strada verso un’Itaca nascosta nel cuore di una remota provincia del sud del paese.
Se strade senza fine e orizzonti illimitati attraversano gran parte della filmografia dei due cineasti del Minnesota, lo si deve tuttavia anche al fascino esercitato sulla loro cifra stilistica dal respiro del grande cinema western degli anni d’oro di Hollywood. E questo ben prima del loro remake del Grinta (2010), adattamento cinematografico del romanzo di Charles Portis, assai più fedele rispetto al precedente omonimo film del 1969 interpretato da John Wayne.
L’oceano lascia il posto alla prateria, gli eroi del mito calzano cappello e speroni, le armi di Achille e Aiace divengono le colt. Senza Omero la Monument Valley di Ombre Rosse e l’infinito orizzonte del Fiume rosso, non sarebbero le storie che conosciamo.
E non c’è da stupirsi. In fondo – stando alle dichiarazioni rilasciate a suo tempo dallo stesso Sergio Leone – il più grande scrittore di western deve considerarsi proprio il cieco di Chio. Come i protagonisti dell’Iliade e dell’Odissea, i pistoleri delle storie del regista romano sopravvivono infatti solo grazie alla loro abilità nell’uso delle armi; vita e morte si riducono ad un cinico gioco di capacità balistica che, nel caso de Il buono, il brutto, il cattivo è esclusivamente asservito al culto del denaro.
Il miraggio del tesoro nascosto, della ricchezza quale fine ultimo del viaggio – tema questo fra i più ricorrenti nella letteratura periegetica di ogni tempo –, non riguarda così soltanto il capitolo conclusivo della “trilogia del dollaro” oppure l’esilarante commedia di Stanley Kramer Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo. Lo si ritrova eternato nel capolavoro di Charlie Chaplin La febbre dell’oro – che vedremo nella versione da poco restaurata dai laboratori della Cineteca di Bologna –, così come nel suo controcanto crepuscolare e nostalgico firmato da Alexander Payne, il recentissimo Nebraska, dove viaggio e processo di riconoscimento fra individui, sogno e destino finiscono per specchiarsi fiduciosamente gli uni negli altri. Quasi si trattasse della codificazione visiva di un romanzo di formazione.
Il viaggio è d’altronde il perno stesso attorno al quale ruota una ricca parte della letteratura d’avventura d’ogni tempo. Defoe, Stevenson, Melville, Conrad, Salgari, Verne senza di esso non sarebbero mai esistiti, almeno come scrittori. Viaggio al centro della terra, fin troppo libera trascrizione di uno dei più celebri romanzi del grande Jules, può annoverarsi – per ciò che qui ci interessa – fra gli esempi più divertenti e spettacolari di come la macchina produttiva hollywoodiana abbia approcciato la materia. Gli effetti speciali di Johnny Borgese la fanno da padrone, dando vita a mostri e situazioni fantastiche che non esistono nell’originale di Verne.
Rimane tuttavia intatto il gioco dell’eterna meraviglia di fronte al mistero oscuro della natura, così come insopprimibile resta nell’uomo il desiderio di perdersi in esso per rinascere, seppur con sofferenza, a nuova vita o per lasciare – forse inutilmente – traccia di sé nel suo grembo. E’ quello che accade in Fitzcarraldo di Werner Herzog, spiazzante visionaria parabola sulla follia come estrema pulsione vitale in grado di spingere l’individuo a misurarsi con forze naturali che lo irretiscono e lo travalicano; oppure nell’ultimo film di Giorgio Diritti, Un giorno devi andare, dove la violenta bellezza del paesaggio fluviale brasiliano accoglie e stempera il segreto dolore della protagonista, vittima di un dramma personale a cui non riesce più a dar senso o peso di parole.
Alcuni viaggi sembrano fatti apposta per raccontare la follia degli uomini, o per ricordarci, sotto una coltre d’amara ironia, verso quali tragedie è destinato a condurli il miraggio del potere. Alla messa alla berlina della retorica e dei miti del fascismo perpetrata con intelligenza da Luciano Salce nel suo Federale – primo grande ruolo drammatico per Ugo Tognazzi, in un film assolutamente da rivalutare –, seguirà così il racconto della tragica ritirata dei soldati italiani dell’Armir dal fronte del Don durante l’ultima guerra. Un pezzo di storia italiana che Marco Paolini, ispirandosi al Sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, ha saputo condensare in uno spettacolo teatrale che, a distanza di un decennio dalla sua prima messinscena, conserva intatta tutta la sua straordinaria intensità emotiva e il suo messaggio d’indignata speranza.
Perché proprio nella speranza si nasconde la prima e più segreta pulsione al viaggio. E’ il prezzo che ci viene imposto dalla mèta che vogliamo raggiungere. Trovare, ritrovarsi, o almeno immaginare che, là dove siamo diretti, possa attenderci un destino diverso: queste le attese contropartite ai nostri sogni di viaggiatori. Ed è questo il filo rosso che attraversa storie come quelle narrate da Clint Eastwood in Changeling, da Radu Mihaileanu in Train de vie, e ancora da Herzog nella Ballata di Stroszek: veri e propri paradigmi di come il cinema abbia inteso raccontare il tentativo di restituire senso e dignità all’esistenza attraverso scelte coraggiose ed estreme, legate ad una lacerante ricerca di salvezza fisica e morale.
Ma il viaggio non è ovviamente soltanto spostamento fisico, tensione verso un altrove al di fuori di noi. Lo sguardo di molti registi ne ha fatto lo strumento per scendere nel labirinto dell’inconscio e sondare dimensioni psichiche sconosciute. Sidney Lumet ne ha offerto un esempio magistrale nel suo Lungo viaggio verso la notte tratto dal dramma di Eugene O’Neil, mentre Giuseppe Tornatore in Una pura formalità – certamente il più pirandelliano e metafisico dei suoi film – se n’è servito per affacciarsi sul limite estremo della vita con uno sguardo livido, ma allo stesso tempo commosso.
E’ questo uno degli ultimi e più felici esiti di una dimensione onirica applicata al racconto cinematografico che, nel corso del tempo, ha saputo trasformare, in più d’un’occasione, il miraggio della ricerca della felicità quotidiana in un suggestivo colloquio con i propri fantasmi. La fuga dal reale (Punto zero), il desiderio di dare un volto ai propri desideri più ancestrali, di trovarsi faccia a faccia col proprio futuro, passano sovente attraverso il colloquio con le ombre che ci circondano o che continuano a presidiare, come solide ragnatele, gli angoli più misteriosi delle nostre anime. Può accadere ad esempio, come in Magnifica presenza di Ferzan Ozpetek, che si possa diventare l’attore che si è sempre desiderato essere, regalando ai fantasmi d’una compagnia teatrale trucidata durante la Seconda Guerra Mondiale la possibilità di mettere in scena la commedia mai interpretata al tempo del conflitto. O che si possa rivestire delle sembianze d’un coniglio immaginario (Harvey, di Henry Coster) il miraggio della serenità quotidiana, vincendo così la battaglia contro una realtà che ha finito per nascondere, sotto una coltre d’apparente felicità, la stanchezza e il grigiore dei giorni del nostro esistere.
Rimangono le piccole gioie, lo sguardo che si accende sul domani con un frammento di speranza in più raccolto alla fine del tunnel, le maschere che finalmente cadono lasciando intravedere i tratti autentici di un volto, gli incontri fortuiti, lo spegnersi dell’odio.
Il viaggio diviene allora strumento di riscatto, catarsi, caduta e ascesa, ritorno alla vita. E’ L’estate di Kikujiro il tempo che riconsegnerà a Masao, bambino abbandonato da piccolo con sua nonna, una madre perduta e forse un diverso domani. Sarà il lungo messianico peregrinare nel cuore profondo dell’America di un celebre cantante sopravvissuto a se stesso, ora in cerca di vendetta (This Must be the Place), a riconsegnare al mondo un uomo migliore o, più semplicemente, un uomo.
Quello che abbiamo vissuto, il nostro viaggio, è parte di noi; quando un’esperienza si conclude non se ne butta via il valore; non c’è sconfitta in una fine, solo il riconoscimento che la vita ha un suo movimento nel quale ci si immerge per trovarsi o perdersi. Un viaggio non è mai sbagliato perché finisce; tutto rimane inciso sulla nostra persona. Ma che si vada o si resti, ci rimane come compagna la malinconia.
Andrea Baldinotti e Daniele Morandi