Cineforum - "Vite vere e immaginarie"
Vite vere e immaginarie è il titolo del nuovo ciclo cinematografico organizzato dal Gruppo Trekking Signa.
Il mercoledì alla Salablù di Signa in Via degli Alberti n.11 a ingresso gratuito, dal 2 al 16 dicembre 2015 e dal 13 gennaio al 6 aprile 2016.
VITE VERE E IMMAGINARIE
Ci sono vite reali che sembrano esser state immaginate dalla penna di un abile romanziere e biografie immaginarie che riassumono in sé i tratti di molte vite che abbiamo conosciuto o solo sfiorato. Fra verità e finzione il confine è sottile; entrambe, da lati opposti, sembrano condannate a perdersi nella superficie di uno specchio che moltiplica all'infinito la loro immagine: che resta tuttavia una sola e la stessa. Sempre.
Il cinema è quello specchio: amplifica e cattura il nostro desiderio di calarci nella vicenda narrata, se non da protagonisti, almeno in qualità complici. Due in uno: esperienze di vita che affondano le proprie radici in un'unica storia.
Abbiamo così deciso di dar avvio alla nuova rassegna cinematografica della Sala Blu di Signa, partendo dal tema del “doppio” che così grande fortuna ha riscosso in ambito letterario (e poi cinematografico), a partire dalla fine del XIX secolo.
E' quindi la vicenda del dottor Jeckyll e della sua parte oscura, il signor Hyde, narrata da Robert Louis Stevenson, a segnare la prospettiva cinematografica dal quale si intendono indagare, attraverso vicende esemplari, le vite di molti personaggi che hanno segnato la storia o, se solo si fossero realmente svolte, non avrebbero mancato di farlo.
Il regista Stephen Frears, trasponendo in celluloide il romanzo di Valerie Marin, torna infatti ad affrontare la materia elaborata dal celebre scrittore scozzese assumendo quale privilegiato personale punto di vista quello della giovane domestica Mary Reilly in servizio presso la casa dello stesso Jeckyll. Resta in primo piano il gioco della giovinezza che viene sedotta o sceglie di lasciarsi sedurre dal fascino di una vita ormai sull'orlo del baratro non solo per gli orrori che essa ha perpetrato, ma anche perché crocifissa ad una solitudine senza ritorno dall'ostracismo dei benpensanti.
E' un tema, quello della mancanza di comprensione e pietà verso il diverso, che il cinema ha frequentato da sempre, toccando, anche in tempi recenti, esiti talvolta sorprendenti. Fra questi occupano un posto d'onore i lavori di Morten Tyldum, che in The Imitation Game ripercorre la drammatica vicenda biografica di Alan Turing, lo scienziato inglese creatore dello straordinario congegno grazie al quale sarebbero stati decifrati i codici segreti nazisti nel corso della Seconda Guerra Mondiale –, e di Mike Leigh che in Turner (1775-1851) rivela compiutamente al grande pubblico quale disperata umanità si nascondesse dietro il visionario talento di uno più grandi artisti dell'era moderna.
Turner trasformava il reale in un palcoscenico fantastico, Caravaggio - così come ha inteso raccontarlo anche Angelo Longoni nello sceneggiato televisivo del 2007 qui riproposto nella versione adattata per il cinema – vi annegava se stesso fino a farne la sua sola vera ragione d'arte e di vita. La genialità è un dono fragile e terribile, una responsabilità verso se stessi e il mondo che sovente non si è in grado di sostenere, che conduce verso l'autodistruzione coloro che ne sono in possesso.
Il genio, lo storia ce lo ha insegnato, spesso non conosce salvezza. Charlie Parker, il Bird di Clint Eastwood, aveva il destino già scritto nelle sue note, così come Caravaggio pareva averlo impresso nelle sue tele dove la morte s'accampava senza speranza di redenzione.
Nessuno, in fondo, può essere più grande dei propri sogni o delle proprie speranze. Il cinema ha continuato a ricordarcelo con storie bellissime e toccanti. Quelle dell'America che perse per sempre la propria innocenza con la morte di Bobby Kennedy, magistralmente evocata per noi da Emilio Estevez nel suo film d'esordio; della Roma caravaggesca trasformata di colpo nella periferia malata della città eterna raccontata da Pier Paolo Pasolini, dove ancora oggi vivono le anime ferite di Accattone e dei suoi assassini; dell'esistenza di un uomo destinata a rimanere per sempre prigioniera dello spazio violento del ring (Toro scatenato di Martin Scorsese, dove un superbo Robert De Niro dà voce e corpo alla parabola umana del pugile Jake La Motta).
Due opere, quest'ultime, bagnate da un bianco e nero toccante e gelido, che è possibile riscontrare anche in pellicole più recenti quali Gostanza da Libbiano di Paolo Benvenuti – storia vera di un caso di stregoneria documentato nella Toscana di fine Cinquecento – o L'uomo che non c'era dei fratelli Coen, inesorabile rassegnata discesa agli inferi di un taciturno barbiere di provincia che vive sulla propria pelle, in termini però completamente rovesciati, tutte le contraddizioni e le illusioni del sogno americano. Un sogno, che come ogni altro sogno non lascia niente dietro di sé: non importa quanto grandi possano essere i confini entro i quali lo si voglia racchiudere e proteggere: la realtà e il tempo, come in Dersu Uzala di Akira Kurosawa, ne hanno e ne avranno sempre e comunque ragione.
In Butch Cassidy di George Roy Hill, i due banditi protagonisti vivono fino in fondo il loro desiderio di libertà senza regole decidendo di andare incontro al proprio destino in un piccolo villaggio della Bolivia, inizialmente immaginata come una nuova terra promessa e infine percepita come estremo riflesso del proprio inutile e vano tentativo di allontanare da sé lo specchio della tragica fine che li attende da sempre.
Guardare negli occhi il futuro è difficile quanto tornare a confrontarsi con le cicatrici del proprio passato. Ce lo ricordano le due storie, una autentica l'altra che potrebbe terribilmente esserlo, attorno alle quali ruotano le sceneggiature di Saving Mr. Banks, diretto da John Lee Hancock e The Reader di Stephen Daldry. Apparentemente lontanissime fra loro per tono e scansione narrativa, le due trame obbligano lo spettatore a scendere lentamente nei segreti inconfessati e inconfessabili delle protagoniste: l'autrice della storia di Mary Poppins, la prima; la vittima-carnefice di un'oscura vicenda legata al dramma dei campi di sterminio nazisti della Seconda Guerra Mondiale, la seconda. Due donne per le quali le voci che hanno segnato come invisibili cicatrici le loro vite si sono trasformate in dolorose compagne di viaggio che non vogliono e non possono essere dimenticate.
Comprendere, come conoscere, è doloroso. La verità non è mai del tutto consolante, ma senza di essa il nostro vivere non avrebbe senso. La ricerca della verità è dunque necessaria quanto la verità stessa. La verità, sembra ammonirci Andrej Tarkovskij, dev'essere il luogo dov'è possibile coltivare la speranza. Quello che in Stalker è denominato la "Zona": un territorio rurale desolato e in rovina dove le normali leggi fisiche sono state stravolte per cause ignote. Isolata da un cordone di sicurezza governativo, in cui tuttavia i militari che la presidiano non osano spingersi, si vocifera che essa contenga una stanza in cui si possono avverare i «desideri più intimi e segreti». E' questa la mèta che i personaggi principali del film vogliono raggiungere e a cui forse, pur senza confessarcelo, tutti noi siamo idealmente diretti.
E' un viaggio dove spesso i confini risultano evanescenti, dove l'illusione e l'ambiguità regnano sovrane. E' sempre così: nel cinema come nel quotidiano, nell'arte come nella vita.
Orson Welles in F come falso ce ne ha lasciato un paradigma spiazzante e mirabile, gettando luce, in forma di documentario, proprio sul mondo dell'arte, sul mondo dei falsari di professione e dei critici d'arte che scambiano i quadri dei falsari per veri.
E proprio nelle parole e nelle immagini di Welles, quasi fossero lo specchio d'acqua in cui Narciso scruta la propria immagine, Mario Santucci ha colto uno dei fili d'Arianna che lo hanno portato – dopo l'esperienza di Viaggi e miraggi dello scorso anno – alla lenta certosina costruzione del film L'uomo nell'ombra che sarà proiettato in prima assoluta nella nostra Sala Blu il prossimo 27 febbraio.